Spunti riflessivi sul valore del limite
Nadia Fina
Parlare di adolescenza significa parlare di cambiamento, poiché l’adolescenza è l’età del lutto, del conflitto e della ricerca di senso.
Lavorare con gli adolescenti è un’esperienza avvincente perché mettono fortemente in crisi il nostro modo di lavorare: transfert, setting, empatia, interpretazioni, sogni, fantasie, tutto il nostro bagaglio tecnico e teorico deve essere rimodulato, ripensato.
Parlare del cambiamento adolescenziale, soprattutto, ci pone inevitabilmente di fronte alla complessa problematica del limite, in quanto l’adolescenza stessa è un’epoca della vita che rimette in gioco le dolorose turbolenze che nel periodo infantile non hanno potuto trovare “il giusto posto” in cui collocarsi ricorrendo alla necessaria flessibilità protesa all’elaborazione psicologica, restando invece negativamente attive e produttive nel mondo interno del soggetto. Tutto ciò che è rimasto sospeso perché le risorse interne del bambino non hanno consentito di fronteggiare adeguatamente il disagio, chiede ora una sua risoluzione. La storia dell’adolescente è una storia che narra la ricerca di una emancipazione che va individuata e conquistata, tra sfide impegnative e dimensioni “al limite”. Si apre una scommessa con il tempo polarizzato tra un passato infantile e un “non ancora” futuro, dove l’oscillazione avviene tra un avanti sperato e un indietro nostalgico. L’adultità è la vera incognita insita nel tempo a venire, desiderata e temuta ad un tempo, poiché internamente è ancora attivo il bambino che guarda all’adulto pensandolo onnipotente e in quanto tale, oggetto identificatorio desiderato (Pellizzari, 2010).
Al contempo è però attivo l’adolescente, ancora incapace di accettare il trascorrere del giusto tempo per raggiungere la sua completa emancipazione. Un giusto tempo di cui si ha bisogno per poter apprendere a investire sul futuro, confrontandosi nel rapporto con i pari e misurandosi con loro.
Un’esperienza, l’apprendimento, tanto desiderato quanto temuto perché sperimentare, identificarsi e condividere – necessari presupposti per l’espressione di sé – sono esperienze che si compiono sotto l’egida della vulnerabilità del Sé (Jammet 2004; Cahan, 2009; Maggiolini, 2019).
Crescere è sempre un’esperienza traumatica, ma per l’adolescente l’esposizione è maggiore perché la strada emancipativa porta appunto con sé la percezione del limite, di quello stato d’animo generato dall’incertezza che caratterizza i processi maturativi delle due istanze dell’Io e del Sé.
Nel tempo storico della contemporaneità e per ragioni diverse, la frequenza e la profondità dei disagi adolescenziali è in significativo incremento. La capacità di resistenza plastica ai conflitti, tendenzialmente alta in questo periodo della vita umana, è indebolita dalle problematiche intrinsecamente sociali come la liquidità – fenomeno questo che definisce la contemporaneità caratterizzandola con processi sempre più accelerati ed iconici – e dalla crisi della funzione genitoriale.
Mancano inoltre forme di aggregazione giovanili che canalizzino ideali e spinte motivazionali verso il futuro su cui investire (Di Benedetto, 2014).
I genitori per parte loro, sono sempre più spesso assorbiti dalle angosce narcisistiche circa il proprio ruolo educativo, disorientati dal bisogno sostanziale di non confliggere con i figli a cui viene invece richiesta una sostanziale approvazione circa il loro stesso agire. Il contesto sociale e culturale in cui siamo immersi ha denegato l’importanza del limite come etica dell’esistenza, sollecitando invece sempre più narcisisticamente anche il soggetto adolescente, sospingendolo verso una pseudità soggettiva che lo costringe a vivere con un’ulteriore forma di estrema problematicità questo periodo dello sviluppo. Costretto in tragitti psichici ed emotivi niente affatto lineari, l’adolescente è così ipersensibilizzato psichicamente dalle trasformazioni corporee e psicologiche che propongono modelli adultizzati narcisisticamente orientati, svuotati di significato, generatori di confusione e profondo disagio circa la propria maturazione sessuale e la costruzione di nuovi legami affettivi e sociali. Un trauma evolutivo che viene amplificato, rendendo ancora più complesso quel particolare percorso esistenziale che dovrebbe portare ad una nuova definizione di sé come soggetto in grado di gestire la dialettica tra realtà interna ed esterna.
Il percorso di trasformazione avviene dunque in un quadro di profonda instabilità psicologica, la cui problematica va inquadrata nel più ampio contesto che include tendenze evolutive e di cambiamento che coinvolgono anche il nucleo familiare e la coppia parentale: un contesto da conoscere per riuscire ad individuare, e comprendere, gli aspetti significativi dell’organizzazione patologica della personalità adolescenziale. I genitori si sentono disorientati perché “non riconoscono più il loro figlio”, intravedono in lui “qualcosa che non era sospettabile”, “una diversità che inquieta e non è gestibile”, si sentono “criticati, osservati, contestati”. Oppure si sentono “ignorati, privati di autorità, inascoltati”. Sembrano essere incapaci di porre quei sani limiti che fungono da orientamento necessario a garantire all’adolescente l’esperienza di quel particolare sentimento di continuità significativa nel cambiamento. Se questo passaggio non avviene, il vissuto predominante dell’adolescente non può essere che quello di un angoscioso sprofondare, di un angoscioso perdersi.
Rimane nell’adolescente una traccia psichica di vuoto assoluto, una forma di mancanza che non è rappresentabile e quindi difficile da trasformare e integrare. Viene meno quella particolare forma di esperienza resa possibile dall’apprendimento del valore di un limite che non vuole precludere necessariamente delle possibilità, semplicemente vuole che l’adolescente entri in contatto con la realtà che dimensiona l’illusione e l’idealizzazione, calmando l’angoscia generata da quanto si deve necessariamente perdere per procedere.
Riferendomi al paziente adolescente parlo intenzionalmente di organizzazione patologica di personalità e non di struttura. Fermo restando, ovviamente, che in adolescenza come in età adulta e infantile noi possiamo riscontrare fenomeni di struttura patologica, mi sembra che il concetto di organizzazione patologica meglio si adatti ad una personalità non ancora rigidamente strutturata sia dal punto di vista delle componenti patologiche, sia dal punto di vista delle articolazioni potenziali di sviluppo e di crescita psicologica. L’organizzazione patologica nella persona dell’adolescente affonda le sue radici in vissuti e strutture infantili che si ripropongono ampiamente nella fase evolutiva e gestirle è difficile. Lasciarle andare comporta elaborare un lutto complesso, anche se l’adolescente si muove psichicamente verso la ricerca di una realizzazione di sé come soggetto agente, differenziato e realizzato nella propria identità. Ma tutto risulta essere confuso, necessita di figure identificatorie difficili da individuare. È un processo, dicevo, di differenziazione emancipatoria dagli oggetti infantili interiorizzati che diviene possibile a condizione che venga compreso a quali pressioni il Sé viene sottoposto nel percorso di crescita e come, tali pressioni, hanno contribuito alla costruzione dell’asse Io-Sé. In questa complessità intravediamo l’intreccio paradossale che tiene legati tra loro limite e onnipotenza, in quanto l’adolescente fa la dolorosa esperienza dello scacco a cui viene sottoposta l’onnipotenza infantile che comporta una necessaria, dolorosa, elaborazione luttuosa.
Nel mondo interno dell’adolescente i depositi infantili dell’onnipotenza si amplificano, manifestandosi con una certa virulenza, a testimonianza del conflitto interno generato dalla paura e dal contemporaneo desiderio di procedere verso l’adultità. L’adolescente non sa bene come fare e cosa fare, comprende in qualche modo che ha bisogno di attrezzarsi per evolvere ma comprende anche che questo processo evolutivo avviene all’insegna di una forma di solitudine, di incomprensione da parte dell’ambiente che lo circonda.
Ma quell’immagine infantile, come un’ombra che investe il nuovo soggetto adolescente, continua ad essere proiettata a lungo nell’illusione di un tempo che può essere mantenuto in uno stato di sospensione in cui ogni cosa rimane immutata. Il rapporto con il tempo è d’altra parte altrettanto difficile per l’adolescente, ne caratterizza la vita psichica rendendolo in un certo senso prigioniero di un aut-aut tra il passato infantile e il futuro della prossima adultità. La fatica di crescere, naturale processo che viene accompagnato da inquietudine e paura, ma anche dalla fecondità di stati d’animo ed emozioni profonde e conflittuali tra loro che definiscono il sentimento della speranza, può trasformarsi in angosce invalidanti ed impasse affettive e relazionali gravi perché crescere, appunto, è un lavoro e non una risoluzione magica. In questo senso ogni difficoltà esperita nel tempo presente dell’adolescenza, si amplifica e porta con sé forme patologiche che riguarderanno sia il presente sia il futuro del soggetto (Di Benedetto 2014; Pellizzari 2014; Lugones, 2014).
In questo tempo storico così difficile da vivere per tutti noi, le patologie adolescenziali hanno assunto nuove forme e nuove manifestazioni sintomatiche che risultano di difficile gestione per i genitori, per la scuola, per il terapeuta e più in generale per la società. La natura di questa difficoltà è del tutto speculare all’indebolimento di un sistema valoriale ed etico della cultura degli affetti, contribuendo all’estrema fragilità soggettiva che altera la percezione adeguata del limite fino ad arrivare, nei casi più estremi, a costellare già nei soggetti in età puberale veri e propri comportamenti antisociali. I fatti di cronaca invitano a non sottovalutare una simile realtà, particolarmente accentuata nel tempo post-pandemico.
La pandemia ci ha fatto conoscere una forma di limite prima sconosciuto. Ha provocato fenomeni di disagio psichico nella popolazione adolescente dovuti alla reattività che le restrizioni hanno imposto. Ha incrementato e accentuato fenomeni adolescenziali polarizzati: ritiro sociale da una parte, forme di violenza particolarmente intense dall’altra. Certamente sono esiti estremi di comportamenti già dirompenti spesso denegati o sottovalutati nelle loro manifestazioni iniziali, tanto all’interno della famiglia quanto nei contesti educativi e sociali.
I disturbi di comportamento antisociale, che comprendono fenomeni come il bullismo, ad esempio, o che evidenziano manifestazioni di crudeltà e intimidazione verso terzi, sono attualmente in significativo aumento e richiedono la messa in opera di dispositivi sociali e di cura mirati, anche in ragione del fatto che gli adolescenti tendono all’emulazione e all’identificazione per necessità identitaria. Dirimere, per meglio comprendere, gli atteggiamenti provocatori e le sfide reiterate contro gli adulti di riferimento dai comportamenti francamente antisociali è una necessità per la diagnosi e per il progetto di cura. Le modalità che caratterizzano il comportamento sfidante sono diverse tra loro, ma la comorbidità con i disturbi da deficit di attenzione e iperattività già presenti nel periodo puberale, si presentano ora in modo incalzante, assumendo il ruolo di indicatori che non devono essere sottovalutati.
Charmet sostiene a proposito degli atteggiamenti sfidanti, ed io condivido il suo pensiero, che se il comportamento disobbediente dell’adolescente è scoperto, deliberatamente provocatorio verso la figura adulta, il genitore ha un margine di intervento e di monitoraggio più incisivo rispetto a quelle modalità in cui i comportamenti devianti prevedono prevalentemente violenze conclamate verso i coetanei, atti di vandalismo o abuso di sostanze. In queste situazioni, nell’approccio mirato alla cura, il terapeuta dovrà sostenere ed elaborare vissuti controtransferali giudicanti e di condanna, senza al contempo sottrarsi “all’emozione di orrore” che gli impulsi del paziente provocano in lui. Il terapeuta si trova difronte, in queste situazioni estreme al “limite del limite”, vale a dire a riconoscere emotivamente e dolorosamente che il limite è qualcosa di non conosciuto dall’adolescente, qualcosa per lui impensabile. Non ci sono state figure adulte che hanno pensato e valorizzato il senso strutturante del limite. Il limite che rende umano il soggetto, che gli consente di individuare e riconoscere le proprie aree vulnerabili non come esperienze annichilenti da cui fuggire reattivamente, bensì come esperienze che consentono di riconoscere quali sono i confini da non superare. In assenza del limite non si struttura nessuna inibizione sana, perde di senso la differenza tra ciò che è bene per il soggetto e la collettività di cui dovrebbe responsabilmente fare parte, e il male che è assenza pura di significato. In assenza del limite questi stati emotivi, accompagnati da massicci sentimenti di inadeguatezza e di inutilità, diventano gli indicatori della gravità clinica del paziente che proietta massicciamente la sua inumanità, facendola esperire al terapeuta in modo molto concreto. Non sottrarsi al compito di fare i conti con il sentimento di disgusto e di avversione per la crudeltà comportamentale che genera in noi il paziente, può essere a mio avviso un momento terapeutico intenso, di vera holding e di vera esperienza positiva del profondo senso del limite che rende umano l’individuo. Il paziente adolescente problematico sa bene che questi sono i sentimenti che vuole provocare nell’altro e vuole che il terapeuta li gestisca anche per lui. Penso che in simili situazioni il contenimento non debba essere pensato come una forma empatica di partecipazione, quanto piuttosto deve assolvere una “funzione specchio”. Lo specchio riflette in modo più diretto quell’immagine di sé che il paziente nasconde a sé stesso o oblitera da sé stesso, perpetuando con gli agiti violenti la dissociazione dei suoi vissuti più profondi che sono caratterizzati da una mancata tensione verso la vita. È questa una assenza che genera odio. La vicinanza empatica è, per queste persone, un ordine affettivo sconosciuto e troppo sollecitante, che scatena in loro ulteriore violenza e disprezzo poiché non si costituisce al loro sguardo come un limite necessario che deve essere percepito e introiettato. Pensano alla paura che gli adulti hanno di loro, oppure alla collusione dovuta ad un tragico, frainteso, senso di potenza che alcuni genitori riconoscono ai figli. L’umanizzazione del paziente, in questi casi è il primo vero obiettivo necessario da raggiungere, affinché l’adolescente possa capire con senso di responsabilità quali sono le gravi conseguenze dei suoi comportamenti. Il sentimento di umanità del terapeuta è intimamente turbato dalle azioni compiute dal soggetto, il suo senso morale ed etico è investito dalla disumanità dei suoi gesti. Questi sentimenti riflessi al paziente, possono contribuire a significare ciò che è stato compiuto e che si pone al di là dell’umana comprensione. In tal modo il terapeuta vicaria in senso molto concreto la possibilità del cambiamento. La disumanità è un elemento attorno al quale l’identità stessa di questi pazienti si è organizzata. Sia essa per difesa, sia essa per emulazione di una figura parentale spesso gravemente danneggiante (Alvarez, Fina-Vezzoli, 2008).
Un paziente sedicenne, S, viene inviato alla terapeuta di un servizio minorile.
S ha vissuti paranoidei che lo portano ad atti di pesante violazione verso i coetanei che vengono minacciati e picchiati se non “rispettano la sua legge”. Legge che è fatta di furti e di sopraffazioni. Il paziente inoltre usualmente malmenava la sorella minore e la madre, alleandosi idealmente con un padre da anni recluso in carcere per una pena molto severa. Con la terapeuta l’atteggiamento è di aperta sfida e di disprezzo. La madre riferisce di atti di violenza verso la sorella fin dalla pubertà del paziente, che al contempo manifestava forme di sadismo verso i suoi coetanei e verso gli animali. S aveva un suo gruppo di amici, e insieme si organizzavano per attuare “spedizioni” contro chi, tra i compagni di scuola, denunciava all’insegnante o ai propri genitori le violenze subite. Dal colloquio con le insegnanti emergono paura e disorientamento rispetto al ragazzo che viene piuttosto blandito, “aggirato”, mai affrontato con fermezza. Segnalato ai servizi, S non cambia il suo atteggiamento che invece assume una sfida sempre più marcata. Nel progetto di presa in carico, articolato con tutte le figure di riferimento di vita di S, nel mio ruolo di supervisore suggerisco alla collega di assumere un atteggiamento speculare a quello del paziente per ciò che concerne la modalità espressiva della comunicazione, in modo che risulti essere piuttosto diretta e poco disponibile ad indugiare sulle giustificazioni portate dal paziente circa i suoi gesti.
Il vissuto controtransferale che la giovane terapeuta mi comunica, è prevalentemente caratterizzato dalla paura e dal disgusto, sentimenti che abbiamo potuto comprendere appartenere, pur se sepolti dall’onnipotenza distruttiva e dall’odio, al mondo emotivo dello stesso paziente, il quale rimaneva imprigionato nella reiterazione continua della violenza verbale e fisica usata, letteralmente usata, come analgesico. S infatti non voleva riconoscere che le sue stesse azioni lo disgustavano e gli generavano paura, perché quella consapevolezza lo avrebbe “reso inferiore”, “debole”, “traditore del padre”, “infame”. Contemporaneamente ho suggerito all’équipe di prendere in carico la madre e la sorella di S, per articolare un lavoro di rete indispensabile e di coinvolgere nel progetto di cura gli insegnanti di S.
Patologie simili ci pongono di fronte al limite terapeutico e al limite del progetto di cura se non vengono approcciate in un’ottica multifattoriale, di presa in carico multipla tra figure professionali che prevedano lo psichiatra, l’educatore, l’assistente sociale, gli insegnati, la famiglia, il terapeuta stesso. La speranza che guida il terapeuta e, nel caso sopra riportato il servizio nel suo complesso, è ben espressa dallo stesso complesso progetto di presa in carico che ha previsto una rete coordinata, capace di riflettere adeguatamente sulle strategie di cura, a partire dalla consapevolezza della frustrazione circa il limite che come adulti, a vario titolo responsabili avevamo, per rendere invece plastico il significato da dare al limite necessario. Un processo di lavoro che ha consentito, grazie al gruppo multifattoriale, di rendere pensabile qualcosa di profondamente perturbante perché impensabile, appunto.
Senza arrivare a questi limiti estremi, consideriamo anche e ad esempio, con quanta forza l’adolescente mette l’adulto – la coppia genitoriale – di fronte alle crisi invece soffocate per quieto vivere o per “amore dei figli”. Quanto sia capace di fare esplodere contraddizioni e comportamenti incongrui silenti, quanto sia capace di stanare le ipocrisie e le menzogne. Molti cambiamenti sostanziali che hanno introdotto nuovi modelli famigliari come le famiglie monoparentali e omoparentali, quelle di tipo nucleare e quelle allargate, sono cambiamenti di straordinario interesse. Ma introducono modificazioni significative di ciò che per noi tutti è il concetto di limite se ci riferiamo alla concezione più “tradizionale” di coppia parentale. Ciò che di positivo possiamo intravvedere oggi, guidati dal desiderio e dalla speranza di leggere il cambiamento significandolo, ricorda ciò che Pelanda sosteneva su questi nuovi soggetti sociali, riconoscendo loro che possono produrre svolte culturali e valoriali molto positive. Lo sguardo aperto e curioso del terapeuta circa queste modificazioni, si incontra e si confronta con il limite che ogni processo di cambiamento porta con sé e che riguarda il tempo necessario per essere assimilato. Stiamo parlando di un’altra funzione positiva del limite: possiamo riconoscere gli intimi turbamenti che ci attraversano quando intervengono cambiamenti culturali radicali che ci investono psicologicamente, emotivamente, affettivamente, toccando le corde più intime dei nostri stessi pregiudizi.
Mi avvio alla conclusione proponendo un ulteriore spunto riflessivo con una vignetta clinica che riguarda una paziente adulta. È un caso che ci consente di ragionare su come agiscono nel tempo, e quindi cosa accade nella fase adulta della vita, situazioni che hanno comportato per l’adolescente forme abusanti. Siano esse state di natura psicologica, siano esse state di altra e più grave natura. In casi simili, casi in cui i limiti sono stati ampiamente disconosciuti, ignorati, non validati nel mondo interno dell’adulto, l’adolescente si organizza intorno a percorsi negativi nei quali non arriva ad esistere pienamente. La memoria esperienziale diviene una forma di incluso psichico che non riesce a diventare esperienza funzionale all’apprendimento e alla maturazione psico-affettiva, configurandosi anzi come ostacolo per lo sviluppo delle istanze dell’Io e del Sé che non sono in grado di costruire quell’asse generatore che passa attraverso l’integrazione dei livelli più profondi del mondo emozionale e affettivo. Viene cioè meno quel tragitto ideale che fa transitare il soggetto da un polo della vita, che all’inizio non può che essere “neutro” e in attesa verso l’altro, quello “morale” che si dovrebbe raggiungere per attestarsi come soggetto responsabile. È il processo interattivo a risentire del danno, fattore ritenuto da Bonaminio decisivo sia per quella particolare forma di ’“installazione residente del trauma” nel mondo psichico del soggetto, che devitalizza il Sé e predispone alla reiterazione attiva del danno.
Riconoscere ciò che non può e non deve essere fatto, è per l’adolescente una precondizione necessaria a stabilire il limite alla pretesa dell’onnipotenza prevaricante e mantiene il soggetto divenuto adulto, in una forma di perpetua ambiguità.
A. è una paziente che aveva con il padre un rapporto di complicità particolare.
Per varie circostanze, A. era stata sempre a conoscenza del fatto che questi aveva continue relazioni extraconiugali. Divenuta adolescente, il padre l’aveva irretita seduttivamente instaurando con lei un rapporto confidenziale, coinvolgendola nel segreto delle sue “scappatelle”, fino a convincerla che poteva “coprirlo” facendo credere alla moglie che padre e figlia uscivano insieme “per fare chiacchiere”, mentre lui si incontrava con l’amante di turno e lasciando alla figlia una libertà eccessiva. Quando feci notare alla paziente la particolarità del rapporto che intercorreva tra loro, A. commentò con disprezzo la mia osservazione, ribadendo la forza del legame che la univa alla figura paterna. Tacciò il mio intervento come moralistico e giudicante, sostenendo che non potevo comprendere che loro “camminavano insieme nella vita come due compagni di strada, felicemente complici”. Successivamente la paziente raccontò, nel corso di una seduta, che la sera precedente era uscita a cena con il padre che l’aveva poi riaccompagnata a casa. Prima di salutarlo A. chiese al padre se “voleva salire da lei a bere qualcosa”. Al mio commento sulla “singolarità” di quell’invito, la paziente rispose di non comprendere cosa ci fosse di strano. L’invito dimostrava invece solo una “particolare attenzione verso qualcuno a cui si vuole bene”. Soprassiedo in questa sede su quell’ambigua espressione, “particolare attenzione”, di cui la paziente non aveva assoluta consapevolezza. Mi interessa invece soffermarmi sulle stupite reazioni di A., che non sono infrequenti con questi pazienti. Anzi esse dimostrano in modo ineccepibile la normalizzazione dell’assenza di confine, di limite appunto, che si innesta nel mondo interno del paziente con una banale normalità, alterando totalmente e pervasivamente il senso di moralità e rappresentando molto bene la promiscuità psichica che l’assenza del limite produce. In un sogno riportato in una seduta di qualche mese dopo, la paziente si trovava in compagnia del padre su una spiaggia tropicale. Mano nella mano correvano insieme verso il mare. Alle loro spalle la madre li osservava remissiva, mantenendosi in disparte. La paziente commentò la presenza materna come presenza docile ma anche sottomessa. Nella realtà la donna era stata sofferente di una prolungata forma depressiva e il padre era stato, per A., il riferimento affettivo più significativo perché più presente. Durante l’adolescenza, in assenza della madre spesso ricoverata, il padre consentiva alla figlia adolescente di dormire con i suoi fidanzatini. Anzi, spesso quelle erano occasioni in cui “entrambi avevano ospiti”, segretamente complici contro la madre che rimaneva ignara, privata di un significato di ruolo e di affettività, anch’essa abusata.
Si tratta, in casi come questo descritto, di soggetti che hanno cronicizzato in età adulta quelle caratteristiche e quei comportamenti che dovrebbero riguardare un periodo di crisi come quello adolescenziale successivamente superati. Ma questa elaborazione non è possibile perché simili modalità abusanti, sonno corrosive del Sé, contribuendo anch’esse a quella confusione delle lingue che ben conosciamo nei casi di abusi sessuali conclamati.
E d’altra parte sempre più numerosi sono i giovani pazienti che in analisi descrivono situazioni familiari all’interno delle quali loro assumono non solo, come ricordavo, la funzione di sostegno adulta, ma di sostituto di un oggetto amoroso. Si genera una compensazione grandiosa per la necessità del Sé, di mantenere alta una certa forma di esclusività affettiva che illude, conformando un’organizzazione di personalità all’insegna di un Falso-Sé o peggio di un Come-Se. La fatica di crescere, naturale processo che viene accompagnato da inquietudine e paura, ma anche da fecondità di stati d’animo ed emozioni profonde e conflittuali tra loro, si trasforma attraverso queste forme di sessualizzazione della relazione genitore-figlio, in una impasse affettiva e relazionale che condiziona la vita adulta, irrompe nelle relazioni amorose in modo distruttivo, come è avvenuto nel caso della paziente sopra ricordata.
Il lavoro analitico con gli adolescenti, nella misura in cui può riuscire a sostenere e a promuovere il riordinamento e l’apertura alla configurazione di nuove identificazioni, apre al futuro, ad una appropriazione soggettiva progettuale della dimensione del futuro. Raggiungere una coesività del Sé, attraversando la vulnerabilità non è mai un’esperienza indolore. Si colloca anzi come un’esperienza che è essa stessa ad alto contenuto traumatico che, pur se di segno evolutivo, apre continuamente falle regressivizzanti. “Crescere è un atto aggressivo” sosteneva Winnicott. L’adolescente esprime questa verità in modo paradigmatico. Essa è una speranza per il futuro, ma anche un’incognita. Compare dunque nuovamente il termine “speranza”, qui collegato inscindibilmente con l’idea di un’incognita. La speranza si presenta relativamente ad un ignoto sostiene il filosofo Bloch, che la definisce come la dimensione del “non ancora” che coincide, secondo il suo modo di vedere, con l’autentico Essere liberato da ogni cristallizzazione statica e restituito alla dinamicità storica e temporale (Fina, 2014). La speranza si colloca su questo arduo crinale, come l’adolescente che ogni volta rinnova, nella sua essenza di soggetto in formazione, l’antico conflitto tra rigenerazione e distruzione dei legami simbolici e affettivi della vita.
Pellizzari sosteneva che come psicoanalisti dobbiamo immaginare e pensare la “Speranza” non come “aura sentimentale idealizzante, ma come fondamento della realtà. La speranza è dunque in rapporto stretto con il limite che si fa esperienza necessaria a definire il senso di realtà (Di benedetto, 2014).
Lugano 15 ottobre 2022